nel libero commento di Giovanna Viva
Cerchio settimo: violenti
Girone secondo: violenti contro se stessi (suicidi) e contro le proprie cose (scialacquatori) la selva dei suicidi le Arpie Pier della Vigna gli scialacquatori Lano da Siena e Giacomo da Sant'Andrea un fiorentino suicida
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco 3 che da neun sentiero era segnato. |
Poco dopo la partenza di Nesso, ci incamminammo per un bosco che non aveva traccia alcuna di vita umana. |
Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; 6 non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco. |
Le foglie non erano verdi, ma di colore tetro. Non vi erano frutti, ma solo rami nodosi, intossicati e contorti su sé stessi come se rifiutassero il distendersi al sole della vita. |
Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno 9 tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. |
Neanche le fiere selvagge che vivono nei boschi fra Cecina e Corneto e che odiano i luoghi colti, hanno simili spine ritorte e velenose. |
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani 12 con tristo annunzio di futuro danno. |
Ed ecco che "Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno," Dante raffigura nelle Arpie, artefici potenti di malìe, tutti i mali che imperversano nel mondo. Quelle anime suicide espianti nei tronchi recavano in loro il male umano ed è pertanto che le Arpie, negativo del mondo, si annidano in quelle anime. Esse, quali malefici impulsi umani, spinsero i Troiani ad agire tanto crudelmente nelle isole Srofadi, da essere scacciati dagli abitanti di quel posto, attraverso lunghe guerre di liberazione. Ai Troiani furono profetizzati danni, fame e pestilenza, quale punizione degli "Dei" per la loro malvagità. Infatti Virgilio narra che Celeno predisse ai Troiani che una terribile fame li avrebbe in seguito tormentati. Celeno è una delle Arpie. "Celeno" celeste baleno, folgorante profezia. |
Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; 15 fanno lamenti in su li alberi strani. |
Le Arpie, mali del mondo dalle grandi ali, percorrono per lungo e per largo tutto il pianeta ed è appunto perché il male appartiene all'umanità che esse hanno "colli e visi umani". I "piedi con artigli" sono il simbolo della rapacità dell'uomo e il "gran ventre pennuto" simboleggia l'insaziabilità umana distorta in una deformazione della natura. I "lor lamenti sugli alberi strani" rispecchiano la sofferenza di quelle piante le cui anime, preda della melliflua carezza del maligno, caddero in quelle sottili reti ammaliatrici tese agli uomini dalle Arpie. |
E 'l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone», 18 mi cominciò a dire, «e sarai mentre |
Il buon maestro: «Prima che ancor di più ti inoltri sappi che sei nel secondo girone», cominciò a dire «e ci sarai quando |
che tu verrai ne l'orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai 21 cose che torrien fede al mio sermone». |
tu arriverai nell'orribile sabbione, dove sono immerse le assetate radici, tu vedrai incredibili cose che se ora io ti dicessi, non presteresti più fede alle mie parole». |
Io sentia d'ogne parte trarre guai, e non vedea persona che 'l facesse; 24 per ch'io tutto smarrito m'arrestai. |
Sentivo da ogni parte venire lamenti e non vedevo persona che gemesse, per cui tutto smarrito mi arrestai. |
Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, 27 da gente che per noi si nascondesse. |
Io credetti che Virgilio credesse che io credessi che tante voci uscissero da gente che, fra quei tronchi respiranti come bronchi, piangesse e che per noi si nascondesse.
Le piante piangevano. |
Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, 30 li pensier c'hai si faran tutti monchi». |
Il Maestro disse: «Se tu spezzi un rametto di una di queste piante, le conoscenze che tu hai ti si dimostreranno tutte errate». |
Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicel da un gran pruno; 33 e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?» |
Allora porsi la mano un pò in avanti e colsi un ramicello da un gran pruno e il suo tronco gridò: «Perché mi schianti?» |
Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? 36 non hai tu spirto di pietade alcuno? |
E poi che da esso uscì la linfa di sangue bruno, ricominciò a dire: «Perché mi strappi? non hai tu senso di pietà alcuno? |
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia, 39 se state fossimo anime di serpi». |
Uomini fummo ed ora siamo sterpi, ben dovrebbe essere la tua mano più pietosa anche se fossimo anime di serpi». |
Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de' capi, che da l'altro geme 42 e cigola per vento che va via, |
Come da un tizzone verde che brucia da un lato mentre dall'altro geme cigolando quasi come per vento che va via, |
sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond'io lasciai la cima 45 cadere, e stetti come l'uom che teme. |
così da quella scheggia rotta uscivano insieme parole e sangue per cui io lasciai cadere la cima e restai immobile come terrorizzato. |
«S'elli avesse potuto creder prima», rispuose 'l savio mio, «anima lesa, 48 ciò c'ha veduto pur con la mia rima, |
«Se egli avesse potuto credere prima», rispose Virgilio, «a ciò che ha veduto |
non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece 51 indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa. |
non avrebbe su di te la mano distesa, ma la cosa per lui incredibile mi spronò ad indurlo all'opera che a me stesso dispiace. |
Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi 54 nel mondo sù, dove tornar li lece». |
Ma digli chi fosti, così che invece di un tuo rimprovero per il gesto spiacente da lui fattoti, egli rinfreschi il ricordo di te nel mondo di Lassù dove tornare a lui è lecito». |
E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi 57 perch'io un poco a ragionar m'inveschi. |
E il tronco: «Col tuo cortese discorso mi alletti in modo tale che non posso tacere e non vi dispiaccia che io mi attardi ancora un poco a conversare con voi. |
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, 60 serrando e diserrando, sì soavi, |
Io son colui che tenne nelle mani il cuore di Federico II, il grande imperatore svevo. Io lo indussi ad operare secondo il mio volere e tenni le chiavi del suo cuore portandolo nell'errore, facendo e disfacendo a mio piacere, con saper fare "soave", subdolo, mellifluo, |
che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi: fede portai al glorïoso offizio, 63 tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi. |
tanto che dal segreto del suo cuore, dal profondo cioé dei suoi sentimenti affettivi ogni uomo tolsi e lui rimase solo, in balìa del mio volere che seguiva fedelmente il pensiero della Chiesa. In tal modo io "fede portai al glorioso offizio" di quella religione, così che ne perdetti "li sonni e ' polsi" la pace e la vita. Ed eccomi ora qui a penare in questo tronco amaro. |
La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, 66 morte comune e de le corti vizio, |
La meretrice che mai distolse gli occhi disonesti dalla corte imperiale, la morte comune nelle sacre inquisizioni, il rafforzarsi nelle corti del vizio abituale che dominava in scelleratezza e crudeltà. |
La meretrice, secondo molti commentatori, sarebbe l'invidia. Secondo le sacre scritture la "grande Meretrice" è Roma, infatti nell'Apocalisse di Giovanni è scritto: "La grande meretrice che siede sopra le sette teste della bestia", che risiede, cioè, sopra i sette colli.
Nell'Apocalisse (18:3) è scritto: "dal vino delle fornicazioni di lei bevvero tutte le genti e i re della Terra prevaricarono con essa e i mercanti del Tempio si arricchirono dell'abbondanza delle sue dovizie".
Nell'Apocalisse (17:1518) è scritto: "E le acque che tu hai vedute sono i popoli e le genti e le lingue, ed io farotti vedere la condannazione della grande meretrice, la donna che vedesti. Costei è la città grande (il Vaticano) che regna sopra i re della Terra".
infiammò contra me li animi tutti; e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, 69 che ' lieti onor tornaro in tristi lutti. |
accesero d'odio tutti gli animi e questi, colmi d'odio, adirarono tanto l'imperatore contro di me (per la grandezza del glorioso ufficio ecclesiastico avevo condotto l'impero di Federico sulla scia delle torture e dei delitti della Chiesa), che i miei lieti onori si mutarono in tristi lutti. |
L'animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, 72 ingiusto fece me contra me giusto. |
Per l'amaro desiderio di sfuggire all'ira e al disprezzo mi tolsi la vita. Operai contro di me quando giusto sarebbe stato per me soffrire l'altrui disprezzo, perciò "feci ingiusto" ciò che "a me giusto" sarebbe stato. |
Per le nove radici d'esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede 75 al mio segnor, che fu d'onor sì degno. |
Per le radici di questo mio nuovo corpo di legno vi giuro che mai ruppi fede al mio Signore (Iddio) tanto degno d'onore.
Fu per Lui che erroneamente io assecondai il glorioso ufficio ecclesiastico e sospinsi Federico a compiere i miei stessi errori. |
E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace 78 ancor del colpo che 'nvidia le diede». |
Se alcuno di voi ritorna nel mondo migliore, ravvivi Lassù il ricordo di me, affinché mi giunga l'aiuto Celeste. Io giaccio ancora per la Karmica percossa che il peccato d'invidia mi procurò».
Ciò mi spinse all'altrui male allo scopo di prevalere sugli altri e raggiungere nel mondo i più alti
traguardi. |
Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», disse 'l poeta a me, «non perder l'ora; 81 ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». |
L'albero, per un po' silenzioso attese, e poi «Ora che egli tace», disse Virgilio, «cogli il momento propizio per chiedere a lui ciò che sapere ti piace». |
Ond'io a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia; 84 ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora». |
Io gli risposi: «Domandagli tu ancora ciò che credi a me giovi sapere, che io non potrei, tanta pietà mi stringe il cuore». |
Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, 87 spirito incarcerato, ancor ti piaccia |
Così Virgilio ricominciò a parlare al tronco: «Affinché quest'uomo possa di te LIBERAMENTE parlare al mondo Celeste, secondo quanto il tuo dire prega, ti piaccia dirgli, o spirito in questo tronco di legno incarcerato, |
di dirne come l'anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, 90 s'alcuna mai di tai membra si spiega». |
in qual modo l'anima si lega in questi tronchi nodosi e se mai alcun'anima da questi tronchi si slega».
Virgilio dice "liberamente" perché, dopo tale insegnamento di Verità Divina, l'anima del cespuglio sarebbe stata meritevole di quell'aiuto Celeste che Dante avrebbe potuto chiedere appunto liberamente senza pertanto violare la Legge di Equilibrio. |
Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: 93 «Brievemente sarà risposto a voi. |
Allora il tronco soffiò forte e poi quel fiato si convertì in voce: «Brevemente sarà risposto a voi. |
Il soffio si convertì in voce ESATTAMENTE COME AVVIENE NEL CORPO UMANO.
Anche l'uomo emana soffi di energia come tutte le creature viventi. È l'energia "soffiata" dal corpo che, urtando sui piani energetici, produce il suono, la voce. Neanche l'uomo ha voce in sé, infatti nessun essere creatro potrebbe mai parlare verso l'interno, nel suo corpo.
Per avere maggiore chiarezza di questo, basti osservare la differenza esistente tra l'abbaiare di un cane che emette scatti di energia e il muggito di un bue che soffia una prolungata vibrazione che lentamente si smorza.
Soffiando forte, perché Dante potesse ben capire, l'albero parlò, e Dante lo udì, poiché l'extraterrestre Virgilio aveva, con la sua alta Scienza messo in sintonia sulla lunghezza d'onda vibratoria del Regno Vegetale, il suo udito.
A tal punto ci sovviene alla mente l'affermazione di Ernest Hemingway, che se le piante parlassero, la loro saggezza ci farebbe arrossire e ci vergogneremmo allora di averne abbattute tante per produrre inutili, cattivi libri che nulla di costruttivo insegnano all'umanità.
Quando si parte l'anima feroce dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta, 96 Minòs la manda a la settima foce. |
Quando l'anima suicida si diparte dal corpo, il giustiziere Minosse, la manda alla fonte di maggior dolore. |
Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, 99 quivi germoglia come gran di spelta. |
Essa cade sulla Terra, triste selva, a reincarnarsi, ma non in un luogo scelto dal suo spirito cosciente, secondo quanto l'Equilibrio d'Amore alle anime consente, bensì dove la Divina mano di Giustizia, che l'uomo considera "fortuna", la indirizza, qui essa germoglia come seme di frumento. |
Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, 102 fanno dolore, e al dolor fenestra. |
Spunta in fili d'erba o in pianta selvatica: le Arpie, artefici di potenti malìe, quali dolori del mondo, fan che gli insetti si alimentino delle sue foglie procurando dolore e le corrodano perforandole, sfinestrandole.
Esse, polo negativo della Creazione, essendo valori negativi necessitano di negativo ed è l'impulso vitale esistente nell'atto del suicidio, che come tutti i malefici impulsi emanati dall'uomo, accende il negativo che "pasce" il male umano, cioè le Arpie, energia malefica che irradia nel mondo. |
Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta, 105 ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. |
Come le altre anime, noi suicidi, verremo alla vita attraverso le nostre spoglie, torneremo cioè a reincarnarci in dimensione umana, dopo l'esperienza dolorosa di pianta silvestre, ma non perché ciascun'anima suicida delle proprie spoglie si rivesta, ché non è giusto avere ciò che si rifiuta. |
Qui le trascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, 108 ciascuno al prun de l'ombra sua molesta». |
Sarà così che noi trascineremo la nostra esistenza in questo mondo che altro non è che una mesta selva in cui vegeta l'albero della vita, irto di spine.
Ogni suicida, quindi, tornerà a vivere in quello stesso luogo del suicidio e l'ombra di quell'albero spinoso precedente lo coinvolgerà ancora portandolo di nuovo nel ripudio del gran dono della vita. |
Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, 111 quando noi fummo d'un romor sorpresi, |
Noi eravamo in attesa credendo che il tronco ci volesse ancora parlare, quando fummo sorpresi da un rumore, |
similemente a colui che venire sente 'l porco e la caccia a la sua posta, 114 ch'ode le bestie, e le frasche stormire. |
sentimmo, così come sentirebbe un cacciatore in agguato, avanzare il cinghiale, la schiera dei cacciatori, le bestie del bosco scappare e le frasche stormire. Questa scena di caccia ricorda quella del (Canto XII v. 57) "in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia". Due scene queste che ricordano la crudeltà umana durante "lo sport" della caccia. |
Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, 117 che de la selva rompieno ogni rosta. |
Vedemmo due, nudi e graffiati dai rovi del bosco, fuggire terrorizzati, rompendo ogni rovo spinoso con il loro corpo. Si tratterebbe di Ercolano Maconi da Siena e di Jacopo di Sant'Andrea, i quali, si afferma, furono dei violenti. Però questa descrizione ci fa pensare che oltretutto furono dei cacciatori che ora bruciavano il loro Karma soffrendo le stesse pene da loro inflitte alle bestie durante le battute di caccia. Essi correvano "da la sinistra costa", come già altre volte si è affermato, il lato sinistro è pervaso dal negativo. I due erano nudi e graffiati come le bestie indifese che, inseguite dai cacciatori, sanguinano ferite dai cespugli spinosi. E come gli animali inseguiti dai cani inferociti, e che in cuor loro invocano la morte liberatrice, |
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!» E l'altro, cui pareva tardar troppo, 120 gridava: «Lano, sì non furo accorte |
così quello dinanzi gridava: «Ora accorri, accorri, o morte!» E l'altro, al quale pareva troppo tardi per salvarsi, gridava al primo: «Lano (Ercolano Maconi), così non furono |
le gambe tue a le giostre dal Toppo!» E poi che forse li fallia la lena, 123 di sé e d'un cespuglio fece un groppo. |
le gambe tue veloci alle giostre di Pieve del Toppo! (Quando tu eri il feritore e non la preda)» (Giostre del Toppo: le giostre sono giochi di armati a cavallo in uso nel tempo antico). E poi gli mancarono le forze e, incespicando fra gli sterpi, di sé e del cespuglio fece un groviglio. |
Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti 126 come veltri ch'uscisser di catena. |
La selva dietro i due era piena di cagne nere, bramose di catturarli, che correvano come veltri usciti da catene.
I veltri, bestie feroci che si cibano di bestie feroci, sono il simbolo del male che altro male annienta, ed ecco che le nere cagne, simili a veltri, liberavano dal male le anime dei cacciatori facendo loro soffrire le stesse pene da essi inflitte alle bestie indifese durante le battute di caccia. |
In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; 129 poi sen portar quelle membra dolenti. |
L'uomo che cercò di nascondersi nel cespuglio fu azzannato e lacerato nelle carni a brano a brano e le cagne si portarono via quelle membra dolenti. Esattamente come avviene agli animali inseguiti e azzannati dai cani da caccia. |
Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea, 132 per le rotture sanguinenti in vano. |
Virgilio mi prese per mano avvicinandomi al cespuglio che piangeva per le inutili rotture dei suoi rami che sanguinavano invano non essendo riusciti a nascondere l'uomo inseguito. |
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? 135 che colpa ho io de la tua vita rea?» |
«O Iacopo», diceva il cespuglio, piangendo, «di Sant' Andrea, cosa ti è giovato farti schermo di me? Quale colpa ho io della tua trascorsa vita rea che a questa espiazione ti porta?» |
Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse «Chi fosti, che per tante punte 138 soffi con sangue doloroso sermo?» |
Il Maestro, sostando ad esso vicino, disse: «Chi sei tu che attraverso tante punte di ramoscelli spezzati versi assieme al sangue un così doloroso discorso?» |
Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto 141 c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, |
Egli rispose: «O anime che siete giunte a vedere lo strazio crudele e ingiusto delle mie fronde così duramente a me strappate, |
raccoglietele al piè del tristo cesto. I' fui de la città che nel Batista 144 mutò il primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista; e se non fosse che 'n sul passo d'Arno 147 rimane ancor di lui alcuna vista, |
raccoglietele ai piedi del mio dolorante cespuglio. Io fui di Firenze, città che per volontà della Chiesa mutò Marte, suo primo Patrono, in Giovanni Battista, trasformando il Tempio di Marte nel Battistero e gettando nell'Arno la statua di Marte, rifiutando in tal modo la protezione Marziana. Dopodiché, la mancanza di quell'arte d'amare la rese infelice. Le guerre intestine e la distruzione di Firenze operata da Attila furono dai Fiorentini attribuite alla mancanza di protezione degli "dei", |
que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. 151 Io fei gibbetto a me de le mie case». |
quei cittadini che poi rifondarono la città sopra le ceneri rimaste, avrebbero lavorato invano se non avessero richiesto l'aiuto Marziano ripescando la statua di Marte e rimettendola al suo posto sull'Arno al Ponte Vecchio. Io, in quel tempo, feci delle mie proprietà "gibetto" cioè patibolo, luogo di tortura per coloro che contro la volontà della Chiesa avevano rimesso al suo posto la statua di Marte e adoravano gli "dei" (cioè quelle creature Celesti discese sulla terra con "i carri di fuoco" da pianeti superiori e definite "Dei" dagli uomini che in quel tempo non conoscevano il volo nello spazio, né potevano immaginare l'esistenza di altri pianeti abitati). In quelle mie proprietà di cui feci "patibolo", luogo di supplizio, io stesso mi impiccai: "Io fei gibbetto a me de le mie case"». La storia di Firenze narra che i Fiorentini attribuirono la distruzione della città e il suo successivo sprofondamento nell'Arno alla mancanza di protezione degli "Dei", poiché ciò avvenne subito dopo che la Chiesa mutò nel Battistero il tempio di Marte e la statua, di Marte che dal Ponte Vecchio dominava l'Arno, fu gettata nel fiume. Fu così che essi ripescarono la statua e la rimisero al suo posto. |