hide random home http://www.fionline.it/mafie/piccio.htm (Internet on a CD, 07/1998)



Sorretta da patti di sangue e da regole segrete, la picciotteria presto comincio' a dilagare per tutta la provincia di Reggio Calabria, toccando anche il Lametino ed il Vibonese che gia' nel 1792 era stato infestato dagli "spanzati", "un gran numero di gente oziosa...ordinariamente inquisito" (33). Dappertutto veniva segnalata la presenza di camorristi e di picciotti, bravacci di paese, per usare la colorita espressione di Corrado Alvaro (34), che del loro essere ben oltre i confini della legge e delle consuetudini avevano fatto un modo di vivere. Le basette erano lunghe e larghe, a segnare in profondita' le gote. L'andatura volutamente ciondolante, come di chi non ha nulla da fare perche' altri fanno per lui. Al collo un fazzoletto, il camuffo, chiuso ai lembi con complicate e singolari arricciature, sempre dai colori molto vivaci, che compravano quando, nelle strade del paese, facevano la loro comparsa i venditori ambulanti, con i loro carri sovraccarichi di ogni mercanzia. In una sentenza, pronunciata dal tribunale di Palmi, a carico di 66 persone di Iatrinoli e Radicena, Molochio, Melicucca', San Martino, Tropea, Bagnara, Messignadi e Polistena, nel Reggino, il 7 giugno 1890 (35) i giudici si soffermarono diffusamente sul modo con il quale gli appartenenti al "clan" andavano vestiti ed acconciati: "I distintivi adottati da tutti per riconoscersi erano i capelli tagliati a farfalla, il berretto con lunghi nastri, in alcuni paesi un neo al volto; e per i capi un anello ad uno degli orecchi (36)". Erano ancora lontani i tempi del conflitto e della complicita' con gli apparati dello Stato. I prefetti, pur ravvisandola, nelle loro relazioni continuavano a parlare di criminalita' spicciola, non di controllo mafioso del territorio. E gli studiosi del tempo, ignorando che la picciotteria nelle campagne era diventata ormai un potere, la continuavano a confondere con le societa' di mutuo soccorso, dando di essa un'immagine populista. Ed invece la picciotteria - l'unica rivoluzione borghese possibile nel Sud d'Italia, come la mafia e la camorra, secondo Hobsbawm - sull'esasperato concetto del proprio essere, aveva fondato in Calabria la sua forza. Rimonta a quegli anni la sentenza del tribunale di Palmi che, per la prima volta nella storia dei processi istruiti contro la picciotteria, accerta l'esistenza in Calabria di una organizzazione criminale, i cui rapporti interni erano regolati da una serie di prescrizioni assimilabili ad un codice (37). I giudici di Palmi in quella circostanza, ebbero la possibilita' di lavorare su uno ''statuto'', di cui purtroppo si sono perse le tracce, ed al quale fa riferimento, nel suo rapporto, il maresciallo Michele Mocchetti, che comandava la caserma di Seminara dei carabinieri e che collaboro' alle indagini. Ma il passaggio da organizzazione a struttura che affidava gran parte del suo potere intimidatorio alla segretezza dei suoi atti, viene meglio tratteggiato dai giudici di Reggio Calabria, chiamati a processare quella che definirono non gia' una banda, ma una ''setta tenebrosa'', guidata da Francesco Cucinotta, un muratore di 24 anni, in una sentenza che prende atto del passaggio dalla criminalita' fraudolenta a quella violenta. Non piu' insomma soltanto intermediazione parassitaria nel controllo del territorio, ma acquisizione del potere attraverso la violenza, spesso omicida. Cosi' scrivevano i giudici di Reggio Calabria, parlando della picciotteria nella citta' dello Stretto (38): "Costituita, per ogni corpo, da 24 camorristi e da 48 picciotti, non si propone, come nelle sue origini, l'estorsione del venti per cento sul giuoco soltanto, ma ancora l'estorsione nei mercati e nei postriboli, il furto con destrezza ed il furto audace e tolse dalla mafia (....) la solidarieta' negli odi e nelle vendette sanguinarie. Ha capi e gerarchie. Si chiama ''bastone'' il capo eletto a maggioranza dei voti, ''Andrino'' il cassiere, ''giovani onorati'' i neofiti, ''picciotti'' i promovibili, ''camorristi'' i provetti''. Il fenomeno della picciotteria - con il suo patto di fedelta', il suo giuramento di reciproco aiuto, il suo modo di comunicare secondo un gergo ad altri incomprensibile -, stando ai rapporti giudiziari del tempo, si diffuse velocemente, tanto che il sorgere di organizzazioni apparentemente legate a questo schema fu segnalato un po' dovunque in Calabria, anche nella provincia di Cosenza, quasi che la contaminazione fosse inarrestabile. Lo Stato non rimase inerte di fronte a questa aggressione tanto che, con il moltiplicarsi di queste cellule di criminalita' organizzata, si registro', parallelamente, il moltiplicarsi dei processi che, nelle loro sentenze, lumeggiavano l'esistenza di un vasto e diffuso tessuto criminale, capace di condizionare - ieri come purtroppo anche oggi - vaste porzioni del territorio regionale. Una delle indagini piu' grosse interesso' ancora una volta la piana di Gioia Tauro ed il processo che ne segui' vide alla sbarra, nel 1900, 225 imputati (39). In questa occasione a vuotare il sacco contro la picciotteria fu Francesco Albanese, soprannominato il Tarra, boss di Gioia Tauro. Arrestato con l'accusa di avere ucciso due giovani picciotti, Francesco Raso e Michele Guerrisi, trovati cadaveri in una zona di campagna nel marzo del 1896, venne in un primo momento prosciolto e poi, sulla scorta di ulteriori indagini, nuovamente arrestato. In carcere il ''Tarra'', colto da una crisi mistica, ammise il duplice omicidio, eseguito, disse, - e qui sta l'importanza della sua testimonianza - per punire, secondo il rituale della criminalita' organizzata, due picciotti che avevano osato violare il codice di fedelta' nella spartizione dei proventi di un furto. Aveva dato in mano ai giudici un filo da tirare che avrebbe potuto smagliare tutto un tessuto di amicizie e di interessi in cui la sua stessa esistenza era intramata. A quei tempi non esisteva la legislazione premiale. Ed il Tarra, che fino ad allora aveva tenuto bordone al codice dell'onore e del silenzio, venne mandato in carcere per il resto della sua vita: primo grande pentito di un'organizzazione criminale che, contrariamente al brigantaggio, era solo figlia della disonesta' di alcune frange della societa' calabrese, veicolo purulento di morte e di paura, tra mille responsabilita' politiche ed istituzionali. Se i briganti, infatti, avevano interpretato il desiderio di riscatto dei ceti subalterni della Calabria, della loro sete di giustizia e di liberazione dalle secolari catene del servaggio, i picciotti - giovani oziosi dediti al vagabondaggio - avevano cercato sempre ricchezza e potere nelle zone ad economia agraria, vitale in una regione che non ha mai conosciuto uno sviluppo organico: la piana di Rosarno, ricca di uliveti e di agrumeti, il Marchesato di Crotone con il suo granaio, la piana di Lamezia Terme con il suo vino e Reggio Calabria con i suoi giardini di arance, mandarini e limoni (44). Una tesi questa che convince anche Luciano Violante (41): "La 'ndrangheta ha il suo antecedente nella picciotteria e nell'intreccio tra essa e la figura ambigua dell'industriante e non nel brigantaggio, come una certa storiografia e un diffuso senso comune tendono a credere". E valida, in questo senso, continua ad essere la distinzione operata da G. Montalbano, secondo cui "la mafia e' ille-galita' nella legalita', il brigantaggio e' fuori legge, anti-legalita' (42)". Nello stesso tempo nessun "rispetto": allora come oggi si uccidevano i testimoni a carico dei picciotti, si minacciavano i pretini che invitano le mogli dei boss a ribellarsi (43), si rubava nelle chiese e nelle case, senza guardare in faccia nessuno. "E' evidente che la 'ndrangheta della societa' agropastorale tradizionale fosse per forza di cose diversa dalla mafia della nostra societa' moderna", conviene l'antropologo Vito Teti (44). "Valori, modi, comportamenti dell'uomo d'onore nascevano e si affermavano in un contesto sociale ed economico profondamente diverso da quello attuale. E cosi' anche la violenza esercitata dall'antica onorata societa' era una violenza omogenea al mondo contadino". Per Teti ogni civilta' esprime al suo interno una peculiare forma di violenza: "Certo a fine Ottocento", spiega, "non avvenivano le stragi compiute con i mitra e con le moderne armi da guerra. Non per questo l'antica 'ndrangheta era piu' umana e meno violenta. Anche per quel periodo abbiamo esempi di distruzione d'interi nuclei familiari, di sanguinosi regolamenti di conti, di stragi in cui venivano uccisi, gia' allora, anche i bambini". Ne' rimpianti e ne' mitizzazioni per la picciotteria, insomma: gia' essa conteneva le radici di quella che poi sarebbe diventata la 'ndrangheta di oggi. Ed anche per gli 'ndranghetisti vale cio' che il giudice Cesare Terranova, ucciso dalle cosche palermitane, scriveva dei mafiosi (45): "Deve essere smantellato il mito del mafioso 'uomo d'onore', coraggioso e generoso, perche' il mafioso e' tutto l'opposto...il mafioso colpisce alle spalle, a tradimento, quando e' sicuro di avere la vittima alla sua merce'...E' disposto a qualsiasi compromesso, ad ogni rinunzia ed alle peggiori bassezze pur di salvarsi da una situazione pericolosa...La consapevolezza che nessuno osera' accusarlo, e che in suo favore si muoveranno e si prodigheranno influenze occulte ed autorevoli, conferisce al mafioso iattanza e sicumera, lo induce ad assumere indisponenti atteggiamenti di sfida e tracotanza, almeno sin al momento in cui non venga raggiunto dalla giusta e severa applicazione della Legge". Saverio Montalto ne La famiglia di Montalbano (46) narra della nascita e dell'affermarsi della 'ndrangheta in un paese reggino di inizio Novecento. Montalto ricorda l'efferatezza degli 'ndranghetisti, le loro spietatezze nei confronti dei poveri, le loro alleanze con gli antichi notabili. I mafiosi descritti da Montalto non hanno piu' alcun legame con gli antichi briganti calabresi che andavano in montagna per ribellarsi alle prepotenze della classe dominante. I mafiosi di quel periodo si alleano con i padroni. Spiega ancora Vito Teti: "Il brigante, come dicono alcuni canti popolari, tirava palle contro il signore che dominava con carta e penna. Lo 'ndranghetista si allontana dal brigante e si avvicina al notabile; il mafioso, anche quando proviene dal mondo popolare, si allontana dalla cultura d'origine e si avvicina alle classi dominanti. Egli non vuole combattere i signori vuole diventare come loro". Secondo Teti, la nascita e l'affermazione della picciotteria avvengono in un periodo di grandi trasformazioni economiche, sociali e culturali. "La picciotteria", sostiene Teti, "non e' espressione di un ambiente compatto, omogeneo, immobile, ma nasce in un universo al crepuscolo. La stessa erosione dell'antica civilta' contadina comporta disgregazioni di valori e rapporti tradizionali, ma anche di forme espressive, di modalita', di trasmissione del sapere". Per Teti la nascita della picciotteria - un'istituzione criminale e culturale sorretta da codici scritti ed autonomi - coincide col passaggio dall'oralita' alla scrittura, cioe' in una fase in cui i ceti subalterni familiarizzano con gli strumenti e le forme espressive che erano appartenute da sempre ai notabili. Il picciotto comprende che per diventare come il barone deve sapere usare "carta, calamaru e pinna", come recita un canto brigantesco riportato da Nicola Misasi nel libro "Il Gran Bosco d'Italia" (47). Cosi' modifica antiche abitudini alimentari (48), introduce nuovi valori, impone nuovi rapporti sociali. Il picciotto diventa un soggetto dinamico in una societa' relativamente stabile, mentre la picciotteria comincia a muovere i primi passi in un periodo di grande trasformazione, nel momento in cui, soprattutto sotto l'incalzare del fenomeno emigratorio, una secolare civilta', quella contadina, comincia a scomparire. E' utile accennare che anche l'emigrato, l'americanu, diventa portatore di nuovi comportamenti, valori, abitudini che ribaltano l'antico ordine sociale e culturale. Egli "domanda" istruzione e vede nell'educazione dei figli un mezzo di riscatto sociale e anche la possibilita' di diventare come i signori. D'altra parte il modo di vestire, di mangiare, di percepire il proprio corpo, di esibirsi, sia del picciotto che dell'americanu (senza confondere ovviamente le due cose) sembrano ispirati a quei modelli affermati dagli invidiati e odiati signorotti. Questi mutamenti naturalmente sono parziali e riguardano soltanto una piccola parte di popolazione in alcune zone della Calabria, dove, come e' noto, non e' mai esistita una borghesia illuminata e dinamica. La mancanza di una vera classe borghese ed il fallimento delle leggi volute dai francesi ai primi dell'Ottocento, come la quotizzazione delle terre demaniali, sono alcune delle cause che hanno contribuito ad accentuare la distanza tra ceti dominanti (soprattutto i baroni che vivevano lontano dai loro possedimenti) e ceti subalterni. E che hanno favorito la nascita e la crescita di organizzazioni criminali, come la 'ndrangheta.