hide random home http://www.fionline.it/mafie/maxip.htm (Internet on a CD, 07/1998)



"La mafia", sosteneva Joseph Bonanno, "l'uomo piu' misterioso d'America" per il New York Times, "e' un modo di vivere (22)". Non da meno, sul finire dell'Ottocento, in Calabria, era la picciotteria. Ad ingrossare le sue fila era tutta "gente dal contegno baldo e sprezzante", come annotavano i giudici del Tribunale di Palmi l'11 giugno del 1892 nella sentenza del primo maxi-processo a questa temibile organizzazione (23). "Questa medesima gente avea de' segni particolari per comprendersi tra di loro, adoperava un gergo convenzionale; entrava nelle cantine, vi mangiava e beveva, e nulla si pagava ai cantinieri; la massima parte di essa era tatuata". A Maropati, nella piana di Gioia Tauro, "l'associazione aveva per capo Michelangelo Scarfo', il quale chiamavasi capo camorrista o saggio, due sottocapi che erano Seminara Domenico e Seminara Francesco, detti camorristi o contabili od anche pampana. Tutti gli altri si appellavano picciotti, o mezze pampane (24)". Piu' articolata la struttura gerarchica a Staiti, Africo e Casalinuovo, sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria, dove la picciotteria, guidata da Filippo Velona', annoverava, oltre al capo ed ai sottocapi, il cassiere, il maestro di scherma, i picciotti di sgarro, di vigilanza, di azione e di onore (25). Ed a Sambiase, nel Catanzarese, dove vi erano i picciotti e i picciotti di sgarro, il segretario, il cassiere, depositario delle carte, il maestro dei diritti e dei doveri, il maestro di scherma, i camorristi, i sottocapi ed il capo (26). A Palmi, invece, il "saggio capo" della picciotteria, a quei tempi, era Antonino Giannino, un ventenne che "alla ferocia univa pure una somma scaltrezza". La lettura che i giudici di Palmi danno della picciotteria, in questo processo, e' straordinariamente lucida: "Tutti gli associati dovevano esercitarsi alla scherma del coltello. Si destinavano le persone, che dovevano commettere i reati, e quelle ancora, che dovevano essere testimoni a discarico, quando coloro che avevano perpetrato i reati fossero caduti nelle mani della giustizia punitiva". Interessante, infine, il passaggio che spiega il coinvolgimento delle donne, che sino ad allora erano state solo compagne di ventura dei banditi, relegate al ruolo di vivandiere se non addirittura aggregate alle bande solo per esercitarvi il meretricio: "In questa (associazione) furono pure ammesse delle donne che, vestite da uomini, prendevano parte alla perpetrazione de' furti ed altri reati". Donne che, al pari degli uomini, erano legate da vincoli di obbedienza, oltre che di fedelta', come racconto' ai giudici Rosaria Testa, accusata di associazione per delinquere in quel processo assieme a Concetta Muzzopapa, entrambe di Rosarno. Giuramenti questi sanciti non solo dalle formule, ma anche dal sangue, che sgorgava da una ferita al mignolo della mano destra, come prevede ancora oggi il rituale di Cosa Nostra. Quindi: non accolite di una organizzazione che faceva della segretezza la sua forza, ma tracotanti esponenti di un sistema che si reggeva sul malaffare. Furti, soprattutto di bestiame, estorsioni, che avevano come bersaglio preferito i proprietari terrieri; lenocinio, in una ambiente, quello malavitoso, che presto avrebbe conosciuto anche le "mele marce". "Era il carnevale del 1893, quando mi proposero di entrare nella picciotteria", racconto' al giudice istruttore di Reggio Calabria, sul finire di quello stesso anno, Beniamino Cotroneo, un giovane di Messali', una contrada a pochi chilometri da Reggio Calabria, legato alla cosca di Giuseppe Surace, che aveva passato armi e bagagli nelle mani della giustizia (28). "La domenica successiva, davanti a piu' di venti persone, giurai di non tradire mai i miei compagni, di rispettare i camorristi, di obbedire al capo e di dividere con loro tutto cio' che sarei riuscito a rubare". Ai giudici spiego' che dopo essere stato presentato a tutti i maggiorenti della setta dal capobastone Giuseppe Surace di Villa San Giovanni che si accompagnava spesso con Filippo Arecchi di Fiumara, dovette dar fondo a tutte le sue risorse per pagare la tassa di 25 lire, necessaria per essere accettato nella picciotteria. Cotroneo venne minacciato di morte in seguito alle sue rivelazioni. Ritratto' la sua deposizione il 22 marzo del 1894, ma trovo' il coraggio otto giorni dopo di confermarla. Venne condannato a 3 anni e sei mesi di reclusione per associazione per delinquere e furto assieme ad altre undici persone di Villa San Giovanni, Campo Calabro, Cannitello, Fiumara, Messali', Salice e Rosali'. Cotroneo fu il primo picciotto a tradire le leggi della mafia calabrese.