hide random home http://www.asa89.it/music/pinkfloyd/pianeta/09-a.htm (Internet on a CD, 07/1998)


LE VERITA' DI DAVID


E’ attualmente riconosciuto come il capo supremo dei Pink Floyd, colui al quale sono legati i destini del gruppo dopo l’abbandono di Roger Waters ed è stato, per oltre 20 anni, il creatore delle magiche atmosfere sonore che hanno affascinato migliaia di ragazzi. Quindi, chi meglio di DAVID GILMOUR potrebbe raccontare la parabola artistica dei Pink Floyd nel corso di questi 25 anni? Nessuno. Sentiamo, perciò, il chitarrista del gruppo in questa recentissima intervista che mette a nudo alcuni aspetti poco chiari della loro storia.


- David, parlaci dei tuoi rapporti con Syd Barrett.

“Noi eravamo amici, dapprima, quindi imparammo a suonare la chitarra, più tardi. Cominciai a suonare professionalmente nei gruppi prima di Syd. Così, parlando tecnicamente, ero un po’ meglio di lui, quando eravamo al college. Ci sedevamo ad imparare le canzoni dei Beatles, Rolling Stones, R&B, blues...Ricordo che passammo molto tempo a lavorare su “Come On”, la facciata “B” del primo 45 giri dei Rolling Stones o una cosa simile. Lui sapeva qualcosa, io qualcos’altro, così ci barattammo gli insegnamenti. Egli quindi lasciò quel college per trasferirsi in un art college di Londra, dove si formarono i Pink Floyd”.

- E’ vera la storia che, nel ‘68, tutti voi mentre vi stavate recando ad un concerto a Southampton, decideste di non caricare Syd Barrett?

“Eravamo su una Bentley. Non ricordo chi lo propose, probabilmente Roger. Certamente non fui io; io ero il nuovo arrivato. Ero a sedere dietro. Qualcuno probabilmente disse: “Dobbiamo passare a prendere Syd?” e Roger probabilmente rispose: “Oh no, non facciamolo”. E andammo a Southampton. Quella sera suonammo con la Incredible String Band ed i T. Rex”.

- Nei primi tempi che ti unisti ai Pink Floyd ti sentivi come un sostituto di Syd?

“Oh, io lo ero, nulla da dire riguardo a ciò. Loro volevano che io suonassi le sue parti e cantassi le sue canzoni. Nessun altro le voleva cantare ed io fui scelto. Quello era il mio lavoro, per quanto riguarda i concerti, comunque. Io e Syd suonammo insieme in soli cinque concerti per i Pink Floyd. O forse quattro. Forse quello di Southampton doveva essere il quinto, non ricordo. Mentre stava accadendo tutto questo, noi stavamo anche tentando di fare il nuovo album, A Saucerful Of Secrets. Ma dal vivo non suonavamo i pezzi di quell’album, ma praticamente tutto il materiale di Syd. Perché non c’era altro da proporre. O quello o “cover” di Bo Diddley”.

- La canzone che diede il titolo all’album A Saucerful Of Secrets, condusse il gruppo verso un’astratta dimensione strumentale?

“E’ difficile da dire. Io mi ero appena unito al gruppo. Non penso che la band sapesse molto cosa voleva dopo l’abbandono di Syd. A Saucerful Of Secrets fu un pezzo molto importante; ci mise al corrente della nostra direzione futura. Se tu prendi “A Saucerful Of Secrets”, “Atom Heart Mother” ed “Echoes”, tutte conducono logicamente a The Dark Side Of The Moon. A Saucerful Of Secrets fu ispirata da quando Roger e Nick cominciarono a disegnare strane forme su un pezzo di carta. Noi quindi componemmo la musica basandoci sulla struttura dei disegni”.

- Tu vuoi dire che utilizzavate i disegni per creare la dinamica della vostra musica?

“Sì. Abbiamo tentato di scrivere la musica basandoci sui su e giù dell’arte. Il mio ruolo, presumo, era tentare di renderla un po’ più musicale ed aiutare a creare un bilanciamento tra l’essere informe e la struttura, la disarmonia e l’armonia”.

- Prima che ti unissi ai Pink Floyd, suonavi nei Jokers Wild, un gruppo che era essenzialmente una “cover band” che proponeva successi di altri artisti. Che cosa rappresentò per te entrare a far parte dei Pink Floyd?

“Io ero consapevole di quello che erano i Pink Floyd. Conoscevo il gruppo da molto tempo così mi aspettavo di essere strano ed avanguardista. Non ho qualche particolare ricordo di avere detto: “Oh no, questo è terrificante”. Penso che piuttosto mi divertì la cosa”.

- Il produttore Norman Smith non era troppo entusiasta di A Saucerful Of Secrets, è vero?



“Lui aveva lavorato come ingegnere del suono con i Beatles ed aveva visto un suo coetaneo George Martin, raggiungere il culmine del successo producendo i Beatles. Quello era il percorso che lui voleva intraprendere. E lo fece con noi ed i Pretty Things. Uno dei due gruppi presumeva che sarebbe diventato il prossimo Beatles. Ma come ben sai la gente ha le proprie idee su come vuole essere. Comunque, lui era un grande insegnante in termini di tecniche di studio di registrazione. Noi andavamo molto d’accordo. Ma una volta o due dovette proprio accettare il fatto che noi non facessimo le cose nel modo in cui pensava che avremmo dovuto agire”.

- Si sono dette varie cose riguardo al fatto che Syd Barrett suoni alcuni brani presenti in A Saucerful Of Secrets.

“Ha suonato in tre o quattro canzoni dell’album, tra cui “Remember A Day” e “Jugband Blues”. E’ anche su un piccolo pezzetto di “Set The Controls For The Heart Of The Sun”.

- Quali particolari tecniche utilizzasti per ottenere quell’insolito suono della chitarra in A Saucerful Of Secrets?

“Nella sezione centrale durante la maggior parte del tempo la chitarra giaceva sul pavimento dello studio. E io svitai uno dei tre sostegni su cui poggia un microfono ad asta. Con uno di quelli sfiorai, su e giù, per il manico della chitarra in un modo piuttosto approssimativo. Un’altra tecnica, che attuai un po’ più tardi, fu di prendere un piccolo pezzo d’acciaio e sfregarlo da una parte all’altra attraverso le corde della chitarra. Lo muovevi e lo fermavi a seconda di come suonava”.

- Un altro vostro particolare e fortunato accorgimento tecnico fu la realizzazione di “One Of These Days”, quando il basso veniva passato attraverso un “Binson Echorec”, che era fondamentalmente un magnetofono, un precursore del nastro magnetico.

“Il Binson era un accorgimento ritardante realizzato in Italia. Era strano perché non utilizzava nastri aggiunti. Tu potevi ottenere alcuni fantastici effetti ritardanti che non si possono conseguire con qualsiasi cosa che è stata fatta da allora. “One Of These Days” si sviluppò da alcuni dei miei esperimenti con il Binson, come avvenne per “Echoes”. Un giorno, Roger decise di prendere alcune delle tecniche che io stavo sviluppando e metterle su basso. Ed uscì con quel riff di base su cui noi tutti lavorammo e che costituì il motivo trainante di “One Of These Days””.

- Tu suonasti il basso in quel pezzo?

“Sì. La sezione d’apertura è mia e di Roger. Su “One Of These Days”, per alcune ragioni, noi decidemmo di fare un doppio pezzo del passo. Tu puoi sentirlo se ascolti in stereo. Il primo basso è suonato da me. Una battuta dopo, Roger si unisce sull’altra parte dello stereo. Noi non avevamo un set di scorta di corde per il basso, così il secondo suona molto cupo. Mandammo un nostro aiutante a comprare alcune corde, ma egli, invece, andò in giro a vedere la sua ragazza”.

- “One Of These Days” è uno di quei pezzi emblematici del suono dei Pink Floyd.

“Io penso che “Echoes” sia il capolavoro dell’album, quello dove noi tutti stavamo scoprendo ciò che era il suono dei Pink Floyd. “One Of These Days” è un piccolo pezzo supplementare scaturito dal lavoro fatto su “Echoes”. Io l’amavo. Meddle è veramente l’album dove noi quattro ci sistemammo, dove trovammo la strada che volevamo per essere Pink Floyd. Molto di più che su Ummagumma o Atom Heart Mother”.

- Perché né Ummagumma né Atom Heart Mother sono contenuti nel recente cofanetto Shine On?

“Noi dovevamo scegliere gli album che consideravamo maggiormente rappresentativi. E, sebbene Atom Heart Mother presenti alcune indicazioni delle direzioni musicali che avremmo preso, non è così importante come lo fu Meddle”.

- Da chi proviene il famoso tempo di 7/4 di “Money”?

“E’ un riff di Roger. Lui venne con i versi ed i testi di “Money”, più o meno completi. E noi facemmo la parte centrale, gli assolo di chitarra e tutto il resto. Noi inventammo anche alcuni nuovi riff; creammo una progressione in 4/4 per l’assolo di chitarra e facemmo suonare il povero sassofonista in 7/4. Io volevo creare un effetto drammatico con tre assoli di chitarra. Penso che feci i primi due con una Fender Stratocaster, ma l’ultimo fu fatto su una chitarra diversa, una Lewis, che fu costruita da alcuni tipi di Vancouver”.

- Quale fu il ruolo del produttore Chris Tomas nella realizzazione di The Dark Side Of The Moon?

“Egli venne per i missaggi ed il suo ruolo era essenzialmente quello di fermare le discussioni tra me e Roger su come l’album avrebbe dovuto essere mixato. Discutemmo così tanto che ci venne suggerito di avere una terza opinione. Decidemmo, quindi, di lasciarlo lavorare da solo, assistito da Alan Parsons come ingegnere del suono. E, naturalmente, il primo giorno io scoprii che Roger si introdusse negli studi di registrazione. Io lo feci il giorno dopo. E da allora decidemmo di sedere con Chris ed accettare le sue decisioni, interferendo se qualcosa non andava per il verso giusto. Ma, fortunatamente, Chris era più d’accordo sul mio punto di vista che su quello di Roger”.

- Fu il primo album in cui emersero delle tensioni fra te e Roger?

“Ah, c’è sempre stata tensione. Ma era una tensione molto controllabile fino a dopo la realizzazione di The Wall”.

- C’era una tensione creativa e, quindi, una completa ostilità...

“C’era una tensione creativa e c’era una totale egocentrica megamaniacale tensione, se vuoi”.

- La prospettiva di dover bissare il grande successo di The Dark Side Of The Moon vi creò un sacco di pressioni all’epoca della realizzazione di Wish You Were Here. Cosa pensi di quest’album?

“Per me è l’album più convincente. Lo amo veramente. Ascolto quello piuttosto che The Dark Side Of The Moon. Perché penso che noi su Wish You Were Here ottenemmo un bilanciamento migliore tra musica e testi. Su The Dark Side Of The Moon si dava troppa importanza ai testi. E talvolta i motivi, i veicoli per i testi, venivano trascurati. Per me, uno dei difetti di Roger, è che talvolta, nel suo tentativo di far capire le parole, utilizza un veicolo imperfetto”.

- L’album Animals venne scritto interamente da Roger Waters, eccetto un pezzo, “Dogs”, composto da te e lui. Quale fu il tuo coinvolgimento in questa canzone?

“Scrissi fondamentalmente tutti gli accordi, la principale parte di musica. E scrivemmo qualche altro pezzetto, insieme, alla fine”.

- Originariamente, esso fu chiamato “You Gotta Be Crazy”. C’era qualche differenza tra i due brani? “Era fondamentalmente la stessa canzone, ma i testi cambiarono un po’ per adattarli al concetto di Animals. Io feci uno o due assoli alla chitarra molto carini, leggermente diversi, su ciò che io consideravo molto piacevole”.

- Attraverso gli anni ‘70 e ‘80 ogni album dei Pink Floyd si rivelò leggermente più elaborato del precedente. Fu difficile riflettere quel progresso sul palcoscenico?

“Attualmente, molto difficile. Passammo anni radunando esperti intorno a noi, proprio per guadagnare la necessaria perizia in tutti i campi in cui noi volevamo che le cose andassero per il meglio. Ci fu sempre un sacco di lavoro da fare, ma noi pensavamo al futuro per suonare”.

- Tu ti trovavi più a tuo agio, parlando della dimensione “live”, nel primissimo periodo di formazione del gruppo, all’epoca delle vostre libere sperimentazioni psichedeliche, oppure quando proponevate al vostro pubblico grandi spettacoli accuratamente orchestrati?

“Direi a metà, veramente. Per me, lo show di The Wall era un grande divertimento ed una grande impresa riuscire a realizzarlo. Ma io dovevo svolgere il ruolo di direttore musicale, se così si può dire, ed occuparmi sul palco di un sacco di cose puramente meccaniche, in modo che Roger non dovesse pensare a loro. Noi tutti avevamo delle battute d’entrata che venivano visualizzate su un monitor o su uno schermo e io dovevo trasmettere, con un equipaggiamento molto primitivo, dei vari momenti di ritardo a tutti quelli sul palco. Una cosa molto complessa. Una volta che tu eri più che soddisfatto di come era tutto ingegnoso ed andava tutto perfettamente bene, non c’erano effettivamente dei momenti, tranne che per l’assolo di “Comfortably Numb”, in cui potevi dire: “Scordalo, mandalo al diavolo. Suona”. Era uno spettacolo così rigido. E invece in tutti i tour precedenti c’erano sempre momenti d’improvvisazione, segmenti che potevano essere estesi, resi più brevi, qualsiasi cosa ti piacesse, fino a che sentivi che era giunto il momento di ritornare nella struttura consueta dello show. C’era quella finestra aperta. Comunque, dovrei aggiungere che mi piace la struttura. Sono molto appassionato della melodia, sono un grande fan dei Beatles e proprio ogni altra cosa che amo, come il blues, è altamente strutturato. Una forma totalmente libera non mi si addice. Ma neanche una struttura troppo rigida.”.

- Ci furono molti disaccordi tra te e Roger durante la realizzazione di The Wall, come nel caso del missaggio di “Comfortably Numb”. Tali problemi tra voi due raggiunsero anche il punto di sfociare nella violenza fisica? “Siamo arrivati alle minacce ma mai alla violenza. Una volta avemmo una vera e propria gara di urla in un ristorante italiano nel North Hollywood. Eravamo là con Bob Ezrin per discutere di The Wall, probabilmente di “Comfortably Numb”, in quanto la sola cosa di cui realmente discutevo con Roger riguardava la mia musica. Non lo infastidivo con discussioni che riguardavano la sua musica”.

- Mentre i precedenti album dei Pink Floyd erano dei “concept-album”, The Wall è il primo con una trama completa. Eri d’accordo con quella storia?

“Mi piaceva il racconto di Roger. Sebbene io non fossi completamente d’accordo con esso. Io avevo proprio un diverso punto di vista riguardo a Roger, circa la relazione con il nostro pubblico. A Roger non piaceva andare in tour. E lui sentiva che non c’era un collegamento tra lui ed il pubblico che gli stava di fronte. Io avevo un diverso punto di vista. E ce l’ho ancora. E il mio punto di vista di ciò che è lo stesso The Wall, è più avvelenato oggi di quanto lo fosse allora. Ora mi sembra essere un catalogo di persone che Roger incolpa per le sue stesse manchevolezze nella vita, una lista di: “Tu mi hai fottuto questa volta, tu mi hai fottuto in questo modo, tu mi hai fottuto in quel modo”.

- Ci volle molto tempo per sviluppare il tuo assolo in “Comfortably Numb”?

“No. Andai in studio e feci cinque o sei assoli. Da allora, io seguii la mia solita procedura; riascoltare ogni assolo e tracciare delle barre indicando quali sono i pezzi migliori. In altre parole, io faccio una specie di grafico mettendo segni e croci su differenti sbarre come se facessi un conteggio: due segni se è veramente buono, uno se è buono e una croce se non lo è. Quindi io seguo proprio il grafico, tolgo quelli meno convincenti, salto da una frase all’altra e tento di fare un assolo veramente carino. Quello è il modo in cui abbiamo lavorato su “Comfortably Numb”. Non fu difficile. Ma talvolta ti trovi a saltare da una nota all’altra in un modo impossibile. Quindi devi passare ad un altro pezzo e trovi un passaggio che suona più naturale”.

- Quando fai una composizione del genere, sei preoccupato del fatto che otterrai un risultato che è fisicamente impossibile da suonare?

“No, se suona tutto bene. Io sono molto felice di scervellare la gente che tenta di capire come è stata realizzata una cosa”.

- Per gli spettacoli “live” tu impari a suonare gli assoli direttamente dal disco?

“No. Io non suono mai gli assoli esattamente nello stesso modo in cui apparivano sul disco. Tendo a cominciare con la stessa cosa che è sull’album e, quindi, decollo da là. Ogni tanto, quando ricordo un pezzetto del disco, ripiego su quello. Naturalmente, l’assolo nella parte centrale di “Comfortably Numb” è calcolato, così io faccio sempre lo stesso”.

- Il tuo sistema di segni e croci è responsabile per tutti i tuoi assoli su disco?

“Non per tutti. Talvolta io canto un assolo per registrarlo e, quindi, lo imparo sulla chitarra. Ottengo spesso ritmi più melodici in quel modo”.

- Chi sono i tuoi chitarristi preferiti?

“Io non sono un fan di molti chitarristi rock. Jeff Beck è il mio favorito; un chitarrista dannatamente bravo”.

- Parlaci di altri chitarristi.

“Eddie Van Halen ha fatto alcune cose che mi piacciono molto. Ma per la maggior parte, no, non mi interessa quel tipo di cose. La chitarra è proprio lo strumento con cui io posso esprimere al meglio i miei sentimenti. Io sono molto veloce con essa, ma tu non devi esserlo. Il mio stile chitarristico fu influenzato da gente come Pete Seeger, Leadbelly, Hank Marvin e Jeff Beck. Ma non c’è stato nessuno recentemente che mi abbia impressionato”.

- Cosa pensi di Pete Seeger?

“E’ un magnifico, fantastico essere umano. Imparai a suonare la chitarra dal suo disco Pete Seeger Teaches Guitar. Quella fu la prima istruzione che io ebbi. Fu molto importante”.

- Venendo a parlare di A Momentary Lapse Of Reason, come nacque la tua collaborazione con Phil Manzanera per la realizzazione di “One Slip”?

“Phil è un mio vecchio amico. Ci conosciamo da anni ed avevamo sempre parlato di fare qualcosa insieme. Così lo andai a trovare al suo studio e cominciammo a suonare insieme. Durante quel periodo, stavo facendo delle cose con varie persone per vedere se c’era qualcuno con cui mi trovavo a mio agio a lavorarci, il quale poteva aiutarmi nella realizzazione del nuovo album dei Pink Floyd senza Roger. Phil scrisse fondamentalmente la musica di “One Slip”.

- In questo album fu difficile per te cercare di mantenere il vecchio Pink Floyd sound?

“Ignorai completamente questa cosa. So che è qualcosa che venne in testa a Bob Ezrin; lui sentiva una certa responsabilità per fare in modo che l’album suonasse pinkfloydiano. Ma è qualcosa in cui io non avevo interesse. Se fosse stato fatto da me, sarebbe stato qualcosa che avrebbe suonato pinkfloydiano fino ad un certo punto. Perché è la mia voce, il mio gusto musicale, il mio suono della chitarra che ha caratterizzato in parte ogni cosa che i Pink Floyd abbiano mai fatto, da A Saucerful Of Secrets in poi”.

- A Momentary Lapse Of Reason è certamente un ritorno ai fasti dei Pink Floyd pre-Animals.

“Sì. Quello è ciò che mi piace. “Signs Of Life”, per esempio, era un vecchio demo. Ho dovuto riregistrare un sacco di cose, ma gli accordi della chitarra ritmica in sottofondo provengono da un demo del ‘78, circa”.

- In questo album tu segui delle idee che, forse a causa della predominanza di Roger, in precedenza non eri riuscito a sviluppare.

“Sì. Io ritornai a questo bilanciamento che privilegiasse maggiormente la musica di quanto era stato fatto negli ultimi tempi. Tu fai ciò di cui sei capace. Roger è molto bravo con i testi, io non sono così abile come lui...”.

- David, senti che stai migliorando come paroliere?

“Sono orgoglioso di alcuni dei testi che ho fatto. “Sorrow” è molto buono. Ci sono cose che ho fatto nei miei album solisti di cui sono stato molto soddisfatto”.

- Hai qualche progetto per un album solista?

“Non per il momento. Il prossimo sarà probabilmente un disco dei Pink Floyd”.

- A Momentary Lapse Of Reason fu una buona esperienza per te, Nick e Rick, nel senso che vi rendeste conto che potevate fare un disco anche senza Roger.

“Sì. L’album ed il tour furono un processo riabilitativo per noi tutti”.

- Fu molto piacevole sentire te e Rick suonare ancora insieme dopo tanto tempo.

“E’ come Bob Dylan quando dice: “Ero tanto vecchio allora, che sono più giovane di allora, adesso”. Tu impari cose su te stesso ed altre persone man mano che il tempo passa. Quando noi tre sediamo e suoniamo, esso suona in maniera pinkfloydiana. C’è un significato molto chiaro in tutto ciò, che per me fu importante da scoprire. C’è qualcosa che è più grande dell’ego di qualsiasi persona”.